Francesco SCARABICCHI,nostrolunedì, n. 2, Maggio 2003

“Un’altra musica, un’altra Italia”

Quando e come nasce “La Macina”?

“La Macina” nasce nell’agosto ’68 perché ho avuto la fortuna, a Spoleto, mentre preparavo il mio esame di stato, di assistere allo spettacolo “Bella ciao” di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, al Teatro Caio Melisso, durante il “Festival dei Due Mondi”. Fu per me una folgorazione giovanile. Conoscevo della musica e della canzone tutto quello che passava la radio di quei tempi: improvvisamente ho visto e sentito che c’erano un’altra musica e un’altra Italia che cantava, per parafrasare le note di regia dello stesso Crivelli, e da lì ho avuto la voglia imitativa di riproporre quelle cose perché, nella mia ingenua ignoranza di allora, ritenevo che la musica popolare fosse solo quella che avevo conosciuto a Spoleto, particolarmente lombarda e piemontese, attraverso Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, solo per ricordarne alcuni. Per diversi anni ho frequentato il repertorio di quel disco. Poi, naturalmente, come comprendi bene, ho avuto bisogno di staccarmi da quel lavoro capendo che la musica popolare era presente in tutte le ragioni grazie anche alla tesi universitaria che ho preparato sulla letteratura tradizionale e orale marchigiana e spoletina, partendo appunto dalla ricerca di tradizione e di oralità della mia terra e da lì non mi sono fermato più.

 

E la ricerca?

La ricerca vera e proprio inizia un po’ più tardi, nel ’73. Lo scopo della mia vita. Voglio dirti, a questo proposito, che i rischi sono stati moltissimi. Ti avvicini, all’inizio, ad un mondo e ad una cultura che non sono tuoi e puoi fare dei danni incredibili senza neanche avvedertene. Accosti persone anziane. Se non sai registrare, se non sai scavare e interrogare, puoi non trovar niente. Puoi offendere, sbagliare, violare intimità. Sono stato fortunato perché ho trovato il mio primo informatore indimenticabile ed indimenticato come il primo amore: Pietro Bolletta, anziano, piccolo, abitava nelle campagne di Monsano (i figli lavoravano fuori), solo in quella vecchia casa, in quella cucina. Il primo giorno con lui ho registrato per la bellezza di tre ore. Non finiva mai. Era in fiume in piena. Sono tornato, ritornato, è stato un continuo di visite ed incontri. E’ lui il mio maestro. Aveva capito il lavoro che facevo. Gli portavo le cose trascritte e me le correggeva. Quando partivo, si ricordava delle cose che faceva annotare dal nipote sulle scatole delle medicine perché non sapeva scrivere e quando ritornavo, facendosi leggere quei versi rammentati, ricordava tutto il brano oralmente. E’ stato come portare alla luce un mondo sommerso, anni sepolti che riemergevano dalla memoria anche e soprattutto sua che si riappropriava di un passato giovane e me lo metteva a disposizione. Trovava in me un ascoltatore che lo stimolava e dal quale si sentiva riconosciuto. Per me è stata una guida fondamentale. Non sapevo dove, come e soprattutto cosa cercare. Gli anni erano quelli della canzone di protesta, dei figli dei fiori. Inizio a catalogare, passando da un informatore all’altro sulla scorta dei segnali che Pietro mi aveva indicato. Ognuno aggiungeva un tratto di strada. L’aprirsi di quegli universi ignoti e stata la meraviglia e la ragione della mia esistenza.

Perché il nome “La Macina”?

Appoggiata ad un muro di una casa all’inizio del paese c’era un’enorme macina di mulino che ora non esiste più. Aveva, ingenuamente, anche una valenza metaforica: la pietra che stritola i vecchi pregiudizi, le mode andate, le false coscienze. Ci aiutò un prete giovane, don Giuliano, zio di uno dei componenti del gruppo, Marco Gigli. In lui avemmo un sostegno e uno stimolo. In una vecchia cantina della parrocchia demmo vita ad un centro. Pensa, il primo anno presentammo le canzoni di Luigi Tenco dopo la sua morte. Poi quelle di Fabrizio De André. Immagina tutto questo in un borgo di provincia come Monsano, in quegli anni. Fu una grossa scossa. Eravamo incosciamente di sinistra. I democristiani di allora ci osservavano come un fastidio e ci osteggiavano, i comunisti nemmeno ci ascoltavano. Successivamente, la cosa assunse un diverso livello politico, inevitabilmente legato ai testi e ai temi della canzone popolare che, per sua natura e necessità, non può che rivolgersi alla storia ferita degli uomini, al loro dolore e ai loro sentimenti, a tutti coloro che non sono ascoltati. Quando ancora aveva un senso preciso contraddire nelle scelte, nei modi, nelle sonorità e nella lingua, gli svenimenti sanremesi, le importazioni coloniali americane, le stagionali mode, la cultura della televisione e lei luoghi comuni. E’ stato tutto questo in un crescere lento, in un proseguire tra errori e omissioni. Penso adesso, con te, a quante cose non ho mai domandato. Ero solo, ho fatto tanto e ho fatto poco, come se avessi, in oltre tre decenni, tirato su dal mare solo un secchio.

Chissà le cose perdute.

Ci penso sempre. Ma penso anche al tesoro che ho salvato e questo mi mette in pace. Tu che conosci il repertorio de ”La Macina” sai cosa voglio dire: “L’anatra”, “Mariuccina a mme me gela…”, “Mamma mamma, me moro, me moro”, “Il frate e la ragazza”: Un repertorio incredibile che senza Pietro Bolletta non esisterebbe. Caro, piccolo, simpatico. Voglio fare anche un’altra riflessione in relazione a loro. Se non sei preparato o non hai un’adeguata sensibilità, puoi commettere guasti irreparabili. Queste persone ti attendono, dopo che sei stato in grado di instaurare un rapporto, dopo che hai superato la soglia della loro diffidenza e ti hanno accolto perché si fidano di te. Quando hanno capito che sei autentico e prometti di tornare, loro si pongono in attesa. Ho conosciuto dei rapinatori, dei saccheggiatori che, dopo aver fatto bottino, sono scomparsi.

Tradendo fiducia e stima di quei solitari e anonimi donatori della memoria.

Esatto. Proprio così. Se mi fossi comportato in questa maniera con Pietro Bolletta, dopo due anni di lavoro assiduo, lo avrei distrutto. Immagina. Gli chiedevo, ad esempio, della ballata “Morte occulta” di Bizzarro e lui: “Non la so.” Una volta lo intervistai per una radio privata. Riunì tutta la famiglia, fece ascoltare la trasmissione e poi ci fu il pranzo al quale mi invitò. Alla fine del pranzo si alzò in piedi, sollevò il bicchiere e cantò, tutta per intero, la ballata che cercavo. Dopo due anni di attesa e di frequentazione. Perché si era comportato così? Perché inizialmente mi aveva concesso il bendiddio, poi aveva imparato a dilazionare per tenermi allacciato nel timore che non mi vedesse più. Lo stesso fu con le altre filandare, soprattutto con Armanda Animobono Mancini . Lei era diventata possessiva a tal punto (registravamo, per anni, il sabato con la meraviglia delle scene di gelosia tra sorelle che cantavano i brani) che fingeva altri ricercatori per ingelosirmi e farmi tornare nel timore che rivelasse quel che sapeva. Si deve loro un’immensa gratitudine per i doni estremi che hanno affidato prima che si perdessero per sempre e scomparissero.

Il rapporto con il canto? Quale educazione?

Da selvaggio, credimi. Ho iniziato a cantare senza saper cantare. Non avevo una tecnica come quella che hanno i contadini, cantanti spontanei di naso, di testa, loro che non perdono mai la voce. Cantavo appoggiato alla gola. Durante i primi concerti la voce, già a metà, non c’era più. Poi non so cosa è successo. Ho imparato inconsciamente a cantare. Tant’è che molto tempo fa venne Giovanna Marini a tenere un corso sulla voce. Lei insegnava e, al termine, mi disse: “Canta come sai cantare.” Adesso la voce non mi lascia più. Poi c’è da aggiungere che, per quasi tutto il tragitto de “La Macina”, volevo che cantassero un po’ tutti i componenti. Adesso la cosa è mutata, dopo l’ultimo lavoro del ’99, Silenzio, canta “La Macina”!. Non so cosa è successo ma sono aumentati il piacere e la voglia di cantare da solo con la consapevolezza di aver camminato verso un mio stile venuto su da sé, senza forzature né particolari preparazioni. Ha influito anche la progressiva modifica, nel tempo, del gruppo (le uscite tutte volontarie di chi sentiva conclusa la sua esperienza, di chi si era stancato, di chi considerava altri percorsi) fino all’assetto attuale, più aperto e libero, nel quale il gusto delle “visite” di altri artisti, che hanno lasciato i loro preziosi apporti di voce, di musica e di esperienza, ha segnato anche una evoluzione e una vocazione alla contemporaneità del patrimonio della canzone popolare che attualizza la sua forza e la sua verità. Sarà stato un po’ tutto questo che oggi mi permette una libertà nuova e una nuova consapevolezza che investe direttamente il futuro prossimo del lavoro. Del resto, gli ultimi anni hanno visto me e “La Macina” impegnati in situazioni diversissime: gli allestimenti per De André e per Tenco, con il “Concerto Musicale Ambaradan”, le situazioni di collaborazione con i “Gang”, il prossimo lavoro dedicato a Piero Ciampi. Parlavo della mia voce e sono uscito dal seminato, ma neanche tanto perché tutto si lega al carattere di una pronuncia e al suo scegliere, volta per volta, ciò che le è congeniale. La musica popolare chiede una presenza che non può essere la stessa che avresti eseguendo le strofe di una canzonetta. Risentendomi, senza rinnegare nulla, avverto le ingenuità e l’inesperienza in brani e ballate che ora interpreto in maniera radicalmente opposta a prima, sebbene non abbia mai concesso nulla alla voga del momento, alle tendenze, ai gusti provvisori, ai gruppi che in quel periodo erano alla ribalta anche della musica etnicopopolare.

C’è anche da dire che “La Macina” ha gradatamente accresciuto l’importanza musicale nel senso degli strumenti e delle sonorità, negli arrangiamenti e nel complessivo linguaggio armonico che oggi coinvolge tutto il repertorio mano a mano che è ripreso, eseguito e inciso.

Hai toccato un punto importantissimo del lavoro. Questa è stata la novità. Ho intuito che la presenza di musicisti seri non può essere limitata e relegata a mero accompagnamento della voce. L’attuale formazione del Gruppo (Marco Gigli alla chitarra, Michele Lelli alle percussioni, Roberto Picchio alla fisarmonica, Adriano Tabboro, direttore artistico, alla chitarra e al mandolino, Giorgio Cellinese al coordinamento) rappresenta il momento più alto della nostra storia perché sono stati capaci, con l’intelligenza delle orchestrazioni e degli arrangiamenti, di costruirmi abiti su misura per la mia voce e le mie possibilità interpretative. Taborro poi ha una incredibile sensibilità. Pensa: veniva dalla musica leggera ed ha rinunciato a tanto per restare con “La Macina” divenendo il punto di riferimento mio e degli altri perché ha modernizzato senza snaturare i brani scegliendo, singolarmente, la giusta misura e l’adeguata veste che esalta la canzone avvicinandola senza stravolgerla. Tutti sono bravissimi in questo perché saldano il passato e il presente, aperti a tantissime esperienze, all’inedito, alla sperimentazione mai azzardata.

Quale è stato il tuo rapporto, in questi lunghi e diversissimi anni, con il tempo della storia e con il tempo dell’umano?

Attraverso la ricerca e la profondità delle provenienze ho capito l’importanza delle varianti: un testo che nasce, che so, nel 1580 è cantato da una filandara di Jesi quasi quattrocento anni dopo e conserva, pur nelle trasformazioni, la sua tessitura, la trama dei fatti, l’ambientazione. Fa tremare. Una tradizione secolare che seguita fino a noi ed io le do voce, la porto in scena. I mezzi di comunicazione di massa, nel loro perverso codice, sono stati e sono in grado di distruggere, in poco tempo, un cammino enorme. Certo, parliamo della canzone che è poca cosa, ma tutta la storia del mondo è contenuta anche dalla memoria della canzone: perché cancellarla? Pensa a quante persone, oralmente, si sono tramandate quel frammento di vita. Perché una musica popolare non devo farla ascoltare come si ascolta Bach o Mozart? Perché ancora si persiste nell’emarginazione o nella rimozione di un aspetto della cultura musicale come il nostro a beneficio della cosiddetta musica colta? Ti porto un esempio per illuminare una forma d’arte di alta dignità e comprendere quanto tempo e quanta storia c’è nel canto popolare: di una ballata come “Il marito giustiziere” ho reperito ben undici versioni differenti solo nelle Marche. Sosteneva Béla Bartòk che è assurdo trascrivere la musica popolare perché, ad esempio, un canto di lavoro intonato da un contadino trascritto oggi già domani lo stesso te lo propone con varianti e microvarianti che lo modificano. Tu hai colto un momento che non è l’unico della vita di quel canto perché l’interprete, la volta successiva, muterà testo e musica, anche di poco. E’ un mondo in evoluzione, altro che morto.

Com’è il presente della canzone popolare?

In quest’epoca e in questa società è un pessimo presente. Se non appari, non conti nulla. Nel regno imperversante dell’immagine, se non ti vedono non esisti. Guarda, ad esempio, come cucinano la musica popolare nelle varie trasmissioni itineranti: vogliono gli osceni gruppi folcloristici con costumi assurdi in quelle assurde, ridicole e tristi mascherate. Credo che la resistenza del canto popolare sarà difficile e faticosa, anche se il nostro lavoro prosegue e dura, ma la volontà è quella di abbassare il livello culturale della gente, farlo scendere sempre di più.

Quindi ritieni altrettanto difficile e faticosa la vita del valore politico del canto popolare?

Certo. Anche la sinistra non ha capito niente, pedinando un modo di intendere la cultura che non regge. Leggevo un articolo di Michele Serra che sottolineava la morte in solitudine di Michele Straniero che molti non sanno nemmeno chi sia. Come la perdita di Roberto Leydi che non si colmerà. Non si tratta di diventare icone, ma è possibile che in questa società orribile non ci possa essere la presenza del peggio contrastata dal meglio? Possibile che tutto si cancelli e si annulli velocemente? Visto che nessuno di noi è eterno, la mia paura più grande è quella di non riuscire a passare il testimone a chi potrà portarlo più in là, continuando.

Quale il valore e l’importanza che dai alle presente che si sono avvicendate sulla scena e negli album ?

Sono preziosi contributi e doni che hanno esaltato me e “La Macina” stabilendo un grado di identità riconosciuta. L’ultimo lavoro di questi mesi, Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto, sancisce un’amicizia artistica e umana con Marino e Sandro Severini dei “Gang”, con la loro estrazione, musicalmente parlando, popolare nel codice rock che si sono ritagliati in modo personalissimo; con la dolcezza della vocalità di Rossana Casale; con il generoso magistero di Giovanni Marini; con la perizia di Riccardo Tesi senza dimenticare il rapporto commovente con Valeria Moriconi, con la sua grande umiltà che tornerà ad onorarci a breve. Le cose vanno avanti, non si fermano certo qui ed io ho ancora un laboratorio in totale fermento.

Francesco Scarabicchi, nostrolunedì, "Forme", n. 2, Maggio 2003